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Viaggio a Londra 25 Aprile – 2 Maggio 1985

 ORGANIZZATO DAL C.I.D.I.

(Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti)


Giovedì 25/04/1985

Maddalena ed io ci troviamo alle 10,00 presso l’agenzia Doria all’esterno della Stazione centrale di Milano; siamo arrivate dopo una notte di viaggio da Roma, con un treno che aveva due ore di ritardo per sciopero del personale.

Come sempre, il gruppo era composto prevalentemente da “donne-profie”; uomini 3 su una trentina di persone tra cui 2 presidi e un insegnante di educazione tecnica, Fulvio Balata di Roma con la simpatica moglie Rosalba, impiegata, non profia.

Ore 10,30 - trasferimento a Malpensa con pullmann.


Attesa e primi approcci con le compagne di viaggio fino alle 13,15 l’ora della partenza per Londra con volo DA1839; simpatiche le organizzatrici del CIDI di Milano, ma un po’ troppo.. milanesi.

Battesimo dell’aria per me che salgo per la prima volta su di un aeroplano; sono un po’ emozionata, ma la curiosità è più forte della paura.

Tempo splendido: paesaggio meraviglioso sulle Alpi innevate; sono felice come una scolaretta e vorrei avere cento occhi per vedere tutto; mi capita il primo scontro con la lingua e Maddalena mi prende in giro perché non so neanche chiedere dov’è la toilette.

Il tempo passa in un baleno e siamo già a Londra: ore 14,00 aeroporto di Gatwich. 


Un pullman ci trasborda all’Invernesse Court Hotel anziché al Kengsinton Inn in Cromwel Road come pattuito con l’agenzia italiana di Londra; è un tipico hotel inglese arredato in stile vittoriano, molto caratteristico, ma non abbastanza accogliente per alcune di noi che protestano vivacemente perché le camere sono fredde o senza acqua corrente o umide. 

Insomma si resta lì una notte e poi si cambierà albergo e ci si trasferirà al Prince of Wales Hotel De Vere Gardens LondonW85AG che risulterà meno caratteristico, ma più funzionale.

Alle 18,30 andiamo a visitare l’Istituto italiano di cultura dove è in corso una manifestazione in onore di Tito Gobbi il grande baritono; molta animazione e gran giro di bicchieri di vino.


Ce ne andiamo presto annoiate; intanto abbiamo costituito il nostro gruppetto: Maddalena, io, Rosalba, Fulvio ed Elisabetta Campanini, una follonichese molto graziosa e simpatica, sposata e insegnante a Roma. 

Entriamo nella sala del seminario; il presentatore è italiano e ci farà capire certe caratteristiche dell’ordinamento scolastico inglese, sarà cioè una chiave utile che permetterà di mettersi subito dal punto di vista giusto per ricordare, ad esempio, che qui non c’è mai stato Napoleone, non c’è quindi mai stata un’opera di centralizzazione e di strutturazione uniforme di tutto il Paese.


La Gran Bretagna è costituita da 3 paesi diversi, il Galles, la Scozia e l’Inghilterra; questa è la differenza che, come Italiani, immediatamente notiamo.

Mr.Trickey parla in un italiano approssimativo e ci fa sapere che tiene un corso di aggiornamento a Modena ogni due anni ad una trentina di insegnanti inglesi e italiani; egli dichiara che è molto colpito dalla cordialità e dalla gentilezza della gente e del provveditorato di quella città.


Il sistema che l’ispettore ci illustra vale soprattutto per l’Inghilterra e il Galles, ma non per la Scozia; il segretario di Stato (= nostro ministro) per l’istruzione è lo stesso per l’Inghilterra e il Galles, ma è un altro per la Scozia; il sistema per l’Inghilterra e il Galles è essenzialmente decentralizzato, diviso tra il governo, le 97 autorità locali e il corpo direttivo della scuola.


Questi sono i responsabili per l’istruzione; fanno parte del corpo direttivo della scuola i genitori e gli insegnanti che si dividono la responsabilità per cui il sistema di Inghilterra e Galles si può definire un sistema nazionale amministrato localmente.


Il department of Education in Science è il principale gestore, ma non l’unico dell’istruzione pubblica; il sistema ha avuto una base legale nel 1944 con un atto del Parlamento che ha affidato appunto la responsabilità a diversi membri; le università sono escluse da questo sistema; le responsabilità del segretario di Stato sono le seguenti:

1 - l’accordo tra i programmi

2 - la direzione e l’incoraggiamento nei confronti delle autorità locali perché proseguano nel loro programma di istruzione

3 - la salvaguardia di un sistema nazionale con dati e obiettivi comuni.

Inoltre il segretario di Stato è responsabile, nei confronti del Parlamento, del fatto che il denaro pubblico venga speso bene, cioè che la gestione della Pubblica Istruzione sia adeguata; le autorità locali debbono provvedere all’istruzione nella zona in cui risiede la scuola; alcune di esse possono opporsi alle decisioni del segretario di Stato, ma non agli obiettivi che egli stesso fissa, per esempio possono opporsi all’organizzazione delle scuole.


Nell’ambito delle autorità locali c’è lo chef education officer che è responsabile in quanto rappresentante eletto; questi rappresentanti eletti formano una commissione che amministra l’istruzione localmente.


Le scuole inglesi hanno la possibilità di innovare e di cambiare; infatti esse hanno caratteristiche comuni, ma sono essenzialmente diversificate; il corpo direttivo di una scuola deve rendere conto del proprio operato all’autorità locale da cui dipende ed è responsabile dell’andamento della scuola; qui si inserisce l’Haed Teacher; questa è una figura professionale che gli Italiani non conoscono; l’head teacher è un docente anziano non per l’età, ma nel senso di esperienza; egli rende conto, all’autorità locale, dell’andamento della scuola; l’head teacher non necessariamente deve fare parte della scuola; chiunque può fare un annuncio sui giornali che mettono questo avviso per gli insegnanti che in Inghlterra possono chiedere di far parte di quella determinata scuola; poi l’autorità locale stabilisce una commissione che seleziona quelli che hanno fatto domanda ed elegge l’head teacher.


Il segretario di Stato deve provvedere alla qualifica degli insegnanti: chi è laureato ha uno status diverso da quello di chi possiede un semplice diploma; di solito bisogna avere la laurea più due anni di training (tirocinio) qualificante.


Le esperienze fondamentali e necessarie per essere qualificati come head teacher sono:

1 - prima di tutto che uno sia stato un buon insegnante in classe

2 - che questi sia un manager della scuola

3 - che sia informato di tutto l’andamento scolastico

4 - che abbia partecipato a dei seminari qualificanti.


Il livello di qualifica comporta anche un livello di stipendio superiore; i vari livelli superiori possono essere:

1 - head teacher della materia

2 - head teacher of department (più materie affini in una scuola grande)

3 - deputy of school (responsabilità didattica e amministrativa)

4 - head master (preside) 


 Domanda: Da un’inchiesta fatta dal Senato della Repubblica Italiana, risulterebbe una grande scarsità di insegnanti professionali; si sente dire che qui in Inghilterra molti insegnanti possono avere una vita professionale di dieci anni (per le donne di sette-otto) dopodichè essi potrebbero cambiare mestiere, addirittura poi, molti potrebbero avere un doppio lavoro; ma questa figura di insegnante di seconda categoria esiste davvero qui in Inghilterra?

E l’opinione pubblica considera questi insegnanti in modo molto negativo?

Risposta: so che la realtà sociale italiana è diversa, cioè mentre gli Italiani fanno gli insegnanti a vita, qui essi cambiano; anche nelle altre professioni si cambia con molta facilità e credo che questo accada anche nella carriera dell’insegnante.


Altra domanda: dal momento che gli insegnanti inglesi fanno domanda per avere un certo posto e quindi vengono assunti, chi ha la possibilità di valutare gli insegnanti? I colleghi? I genitori? I superiori? L’head teacher, essendo responsabile del lavoro che fanno gli altri colleghi, che mezzi ha per giudicarli?

Risposta: è importante il rapporto interpersonale con gli altri colleghi, perché, così facendo, si può parlare insieme, stabilire insieme i propri obiettivi ecc.; questo naturalmente ci fa conoscere i colleghi e fa in modo che i colleghi conoscano noi; per misurare questa capacità, adesso si ricorre all’autovalutazione dell’insegnante stesso.


Se si fa la richiesta per andare in un’altra scuola è necessario anche che l’head teacher dichiari se l’insegnante ha fatto il suo dovere nella scuola e come si è comportato con gli altri colleghi; adesso c’è la tendenza, da parte dell’h.t. di andare sempre più spesso nella classe dei colleghi che insegnano la sua stessa materia; non è un’ispezione, ma un lavorare insieme; in Gran Bretagna gli ispettori sono diversi da quelli italiani che vanno a controllare il lavoro dell’insegnante, qui gli ispettori vengono per dare un suggerimento, per dire: ”guarda io ho fatto questa esperienza, perché non provi anche tu?”


Come si vede, gli ispettori italiani agiscono sulla base del sospetto, mentre qui si agisce sulla base della fiducia; questa è la differenza fondamentale; comunque quando si chiede di andare in un’altra scuola, si deve presentare un curriculum che riporti le esperienze e la dichiarazione se l’insegnante ha fatto o no corsi di aggiornamento. Si incoraggia l’autovalutazione perché, anche se questo non succede in tutte le scuole, pare che questa e il lavorare collegialmente compensino, in qualche modo, il senso di solitudine degli insegnanti.

Domanda: in Italia gli insegnanti possono comunicare tra loro i problemi delle varie classi, però molto spesso si tende a coprire le proprie “bucce”, qui in G.B. invece, questo metodo è usato per scambiare esperienze e per risolvere i problemi; ora questo avviene a livello spontaneistico, è incoraggiato o si basa su presupposti scientifici?

Queste competenze vengono date agli insegnanti tenendo conto del fatto che voi puntate l’attenzione soprattutto sull’aspetto relazionale del lavoro degli insegnanti? Risposta: attualmente si ritiene opportuno, pur tenendo conto della tradizione del passato, che l’istruzione, in un certo senso, si organizzi per il futuro e cioè possa cambiare secondo le nuove esigenze; è importante che l’istruzione sia ben bilanciata e che abbia un progetto per l’occupazione futura, quindi le scuole devono discutere sui bisogni che ogni classe rileva e procedere adeguatamente alle esigenze rilevate; occorre trovare insieme obiettivi comuni da raggiungere in futuro.

Lei ha parlato di tecniche precise del lavorare insieme, ma qui il lavoro di gruppo che noi abbiamo sperimentato negli ultimi dieci anni, oggi è ritenuto un lavoro vecchio; queste esperienze si hanno nella singola scuola; i bisogni non si rilevano a livello nazionale, ma riguardano quella determinata scuola e quella determinata situazione a cui si deve rispondere.

Intervento: noi vogliamo sapere se esiste un metodo quasi matematico generalizzato alla base del quale sta il fatto che la scuola qui è pragmatica, cioè non esiste una teoria sulla scuola, non si è parlato qui di pedagogisti, di studiosi della psicologia della crescita come mai?

Risposta: qui non si ha la mentalità della graduatoria che comporta il voto-cifra, ma quella del “lavoriamo insieme” sia per quanto riguarda gli insegnanti che gli studenti; questa mentalità viene inculcata fin dall’ infanzia e così quando si diventa un professionista, essa, almeno nelle persone intelligenti, continua a sussistere.

La scuola inglese sarebbe tendenzialmente selettiva mentre il sistema comprehensive, introdotto nel 1956, si oppone al sistema selettivo per cui mentre prima c’erano esami per studenti più capaci ed esami per studenti meno capaci, adesso c’è la tendenza a realizzare un sistema unico che non tiene conto della differenza di capacità; per chiarire il discorso: gli esami che si fanno qui sono di due livelli: - livello ordinario che si fa a 16 anni - livello advanced che si fa a 18 anni e serve per l’ingresso all’università I programmi dei due esami sono abbastanza diversi, ma si tende ad unificarli e si fa così anche per la valutazione.

E’ difficile prevedere quali saranno le richieste del mercato in futuro, però è necessario preparare gli alunni alle tecnologie per cui tutte le scuole dovranno avere il computer; in ogni scuola ci sarà un insegnante che informerà gli studenti e gli insegnanti e anche i docenti della singola materia dovranno tenersi al corrente delle richieste del mondo del lavoro e informare i ragazzi su quali possano essere gli sbocchi futuri per loro. Oxford: qui si tratta di ruolo e funzione dell’adviser nell’ambito dell’autorità locale.

Domanda: è possibile un confronto tra l’organizzazione scolastica inglese e l’IRRSAE italiano che è un centro di sperimentazione e aggiornamento?

Risposta: il prof. Sam Muir-school-adviser-Oxford parlerà delle funzioni dell’adviser nell’ambito delle autorità locali riguardo all’aggiornamento in servizio e alla sperimentazione come l’IRRSAE in Italia; una di queste funzioni sarà quella di fornire informazioni sulle iniziative e le proposte che il ministero (D.E.S.) darà; quanto è stato organizzato qui nella regione di Oxford lo sarà anche nelle altre regioni, questi risultati saranno rimandati al D.E.S e verranno esaminati dagli ispettori di Sua Maestà tra i quali abbiamo conosciuto mr. Trickey alla luce dei vari rapporti locali che sono continui, si costituirà un rapporto definitivo che, appunto, terrà conto delle varie esigenze.

Lo scambio di idee tra noi insegnanti italiani e i rappresentanti della scuola inglese ci è sembrato talvolta interessante e tal’altra piuttosto faticoso, ma ci ha chiarito abbastanza la differenza tra la qualità della professione insegnante italiana e quella inglese; alcuni dei nostri colleghi del Regno Unito ci hanno detto senza complimenti che, secondo loro, mentre gli insegnanti inglesi sono dei professionisti molto responsabili, ben preparati e adeguatamente pagati, gli italiani sono solo degli impiegati statali scarsamente professionali e, conseguentemente, mal retribuiti.

Per consolarci un po’ abbiamo via via cercato di alternare l’ascolto delle discussioni con il godimento delle bellezze artistiche e delle caratteristiche culinarie che Londra offre ai turisti.


Così, abbiamo ammirato Hide Park il grande parco fiorito nei pressi dell’hotel che ci ha ospitati; in seguito abbiamo potuto cogliere la caratteristica architettura dei bei palazzi passeggiando per le streets (strade) affollate e percorse da grandi pullmans a due piani; una graziosa carrozzella con tanto di fiaccheraio e cavallo dalla bionda criniera ci ha fatto ricordare l’amore degli Inglesi per la tradizione; ci è piaciuto il gran numero dei piccioni intenti a beccare senza aver paura dei passanti; stavamo appunto ammirando le loro forme affusolate, mentre qualcuno li stava osservando da un altro punto di vista: ”Bada come sono grassi! Che bell’arrosto ci si potrebbe fare!.. ”

Si è sentita d’un tratto una voce in una lingua a noi ben nota, ci siamo voltati di scatto e ci è venuta spontanea una domanda al gruppetto di giovani che passeggiava dietro di noi: ”Italiani?” al che ci è stato risposto: ”Come avete fatto a indovinarlo? ”
Risate e allegre battute hanno concluso la scenetta.

Per ricordare il nostro viaggio, ci siamo fatti fortografare insieme ad una signora del nostro gruppo intenta a programmare su di una guida della città, una gita ai monumenti più famosi come il Tower Bridge, il grande ponte che unisce Southbank con la Torre di Londra; è questa un edificio imponente famoso perché vi si trovano i gioielli della corona oltre ad orribili strumenti usati anticamente per torturare i prigioneri.


Passeggiando lungo il Tamigi, ci hanno incuriosito varie persone incappottate, stese su sedie a sdraio che al mare del nostro paese sono usate per prendere il sole in costume da bagno; assai interessanti poi, ci sono parse le guardie della regina, in marcia sotto il peso dei grossi colbacchi neri. Giunti in una piazzetta, abbiamo notato una folla di persone intente a scegliere oggetti in vendita, un mercatino? Certo! Si tratta di Portobello, mercato dell’usato, famoso per le sue bancarelle che, oltre a merci di ogni tipo, espongono mobili di antiquariato assai ricercati.


Passeggiare stanca e stimola l’appetito, così, seguendo il consiglio della nostra guida, abbiamo consumato un’ottima cena in un ristorante indiano nel quartiere di Soho: qui abbiamo gustato succulenti piatti di riso cucinato in vari modi, cibo assai piacevole per le nostre papille gustative, ma disastroso per le nostre finanze; in seguito, per necessità e anche per curiosità, ci siamo accontentati di ristorarci nei pubs con gli hamburgers dei Mc Donalds e con cartocci di fish and Cheeps (pesce e patatatine) dissetandoci con capaci bicchieri di birra o di succo di arancia; ci sarebbero state molte altre cose da vedere e da godere a Londra, come i grandi parchi ombrosi, i musei ricchi di celebri quadri e le maestose cattedrali come Westmister o S. Paul Cathedral, ma gli 8 giorni del nostro viaggio sono ormai finiti e, fatte le valigie, riprendiamo l’aereo per tornare a casa.

Le altre foto di viaggio:










Viaggio in Olanda - 5-16 Luglio 1969

 

Dai miei diari di viaggio, racconto l'esperienza in Olanda e le impressioni sulla chiesa cattolica olandese. (nella foto il mercato dei fiori di Amsterdam).



Venerdì 4 luglio, fatti i bagagli, parto per Firenze verso le 19,00; in treno trovo una signora con un giovanottello che pure vanno a Firenze, non solo, ma allo stesso albergo dove io ho prenotato una camera, cosicchè c’è chi mi porta la valigia fino “in loco”.

Dopo una bella doccia, me ne vado a riposare; alle 7,00 sveglia e, rifatte le valigie, via alla Meridiana, centro scambi culturali che ha organizzato il nostro viaggio: niente di più facile: faccio chiamare un taxi che, dopo qualche rigiro, mi scodella in via della Fortezza 6 dove già vedo un certo movimento; c’è, per esempio, una signorina che sta portando anche lei le sue valigie nell’atrio della Meridiana e mi sembra un po’ superbiosa: è Luciana Bresci che poi si rivelerà per una bonacciona, timida e silenziosa; vedo una copia del Catechismo Olandese tradotto in italiano, ma non lo compro per non aumentare i miei già pesanti bagagli.


I viaggiatori arrivano ed ecco Nazario Chiesi con Maria Bracco che già conobbi l’anno scorso a Parigi; ci salutiamo contenti, e dopo una mezz’oretta, partiamo a bordo di un bellissimo pullman da gran turismo.

Adriana Zarri, teologa malvista dalla Curia romana, guida la brigata coadiuvata da un gruppetto di giovani che poi si dichiareranno (i maschi almeno) appartenenti al P.S.I.U.P..

Si procede fino ad Ivrea dove ci aspettano altri amici; tra questi c’è anche Ettore De Georgis, un simpaticone già conosciuto a Parigi che ci accoglie con grandi manifestazioni di amicizia; ci sono anche tre preti che, aggiunti ai due che già avevamo a bordo (Don Pezzini e Don Nardi di Lucca), faranno cinque e sono: Don Ossola di Ivrea, Don Gutina, torinese e Don Bossi di Milano; con loro sono anche i due Frigerio marito e moglie già conosciuti a Parigi.

Si va a pranzare in grande allegria; si riparte quindi, alla volta di Martigny cantando cori alpini di cui sono animatori Maria e Don Bossi, un prete piuttosto anziano, ma assai vivace, tipico esemplare degli oratòri e dei boy-scout, che mi è cordialmente antipatico.


Arriviamo a Martigny, un paesotto poco al di là del confine svizzero e, dopo una parca cena, andiamo a dormire in certe graziose camerette a due letti con doccia.

Al mattino si parte diretti a Basilea; la signorina Zarri ci tiene una impegnativa conferenza circa la situazione degli studi teologici oggi, illustrandoci un po’ la posizione dell’Olanda a questo proposito.

Il paesaggio è assai vario e interessante; sul pullman ci scambiano i posti; io capito accanto a Don Gutina e intavoliamo una discussione vagamente sociologica; è un prete abbastanza giovane, ma assai arretrato nelle idee; parla come un benessitario soddisfatto ed io mi allontano un po’ scocciata; Ettore ha già cominciato a pontificare su Bonhoeffer, Mounier, Hans Kung ecc.; cantiamo in molti e pian piano arriviamo a Basilea dove tira un gran vento e piove; infreddoliti, saltelliamo fino all’albergo dove pranziamo a base di maiale e patate; compriamo alcune cartoline e ripartiamo.


In pullman fioriscono le discussioni e i canti; arriviamo a Wiesbaden verso sera; alloggiamo in un albergo vecchiotto e molto teutonico con un cameriere dalla faccia tipicamente tedesca che non capisce granchè delle elucubrazioni di Ettore sulla birra.

Dopo cena Maria ed io andiamo a fare due passi, ma ben presto torniamo all’albergo perché alcuni neri hanno dimostrato un eccessivo interesse nei nostri riguardi; così troviamo Ettore e Sebastiano, un siciliano con la faccia caratteristica di un certo ambiente borghese.

Facciamo il giro dell’isolato chiacchierando e ci ritroviamo in una birreria dove già stavano Don Ossola e qualche altro; Don Ossola è un grosso prete di Ivrea, un po’ anziano, con una buona faccia paterna assai simpatico.


Al mattino, dopo avere assistito alla Messa in una bella chiesa gotica, partiamo di nuovo per Duisburg dove arriviamo verso l’una affamati, stanchi e raffreddati perché tira un forte vento e fa freddo.

L’albergo in cui pranziamo sorge in una piazzetta nel centro della città, è piuttosto moderno e confortevole; a tavola faccio conoscenza con due ragazze di Firenze una delle quali è della Casella, un ambiente assai vicino all’Isolotto; sono due zitelle dell’Azione Cattolica, ma non sono antipatiche, hanno solo un’aria un po’ vecchiotta.

Ripartiamo allegramente alla volta dell’Olanda e arriviamo a Leiden da dove proseguiamo per Oud-Poelgest; il paesaggio è cambiato in confronto a quello tedesco; si incontrano numerose mandrie di mucche, grandi campi verdi, canali e mulini a vento in disarmo.


Nelle cittadine che attraversiamo ci colpisce la grazia delle casette allineate sulle strade e colorate dall’abbondanza dei fiori; arriviamo al castello di Oud-Poelgest verso sera; ci aspetta un giovane aitante e assai simpatico, Karl Beckers, che a cena ci dà il benvenuto in un italiano piuttosto impreciso, ma perfettamente comprensibile.

La cena è piuttosto deludente: latte, caffè lungo, the, margarina, vari tipi di marmellate e pane di segale; comunque ceniamo allegramente e, dopo varie chiacchiere, ci ritiriamo.

Al mattino ci rechiamo a Messa; i nostri preti concelebrano in una sala del castello e la cosa è piuttosto suggestiva; sono arrivati altri tre italiani dalla Sardegna: Don Camillo, Don Rosso e Salvatore Masala.

La colazione somiglia sorprendentemente alla cena.

Dalla sala dei convegni giunge il trillo di un campanello: ha inizio l’apertura del seminario; in fila, come scolaretti, tutti ci avviamo ad ascoltare i conferenzieri che ci chiariranno le idee sul cattolicesimo olandese.

Una settimana, anche se densa di incontri e di discussioni, non è certo sufficiente per potersi fare un’idea del cattolicesimo olandese; tuttavia per chi, come me, arriva in Olanda da un paese della Maremma dove le novità in campo religioso stentano ad attecchire, anche una semplice presa di contatto può risultare illuminante.


Qualche lettura ed una certa informazione circa le notizie dal mondo del ”dissenso cattolico” mi hanno permesso di non avere grosse sorprese, ma una cosa è leggere e un’altra cosa è parlare con esseri umani profondamente inseriti in una realtà così diversa da quella di casa mia; prima di tutto devo dire che i contatti con personalità di rilievo quali il Dr. B.J. Hemelsoet, professore della facoltà di teologia ad Amsterdam, o il Dr. L.J.M. ter Steeg, segretario della Conferenza Episcopale di Olanda, sono stati facilitati, oltre che dalle doti personali degli interlocutori, anche da una totale assenza di trionfalismo che ha messo totalmente a loro agio noi “profani”.

Quasi tutti i conferenzieri inoltre, in grande maggioranza sacerdoti, avendo studiato a Roma, espongono in un ottimo italiano e ciò facilita non poco lo scambio di idee.


Gli aspetti emersi del nuovo cattolicesimo olandese mi sono parsi quanto mai stimolanti e ricchi di prospettive a parte qualche inevitabile perplessità; c’è sicuramente, a mio parere, un’interiorizzazione in atto del Messaggio Evangelico, che rifiuta ogni schematismo ed ogni apriorismo tradizionale; gli uomini di punta del movimento innovatore hanno preso coscienza di una problematica che sta a fondamento della situazione odierna del cattolicesimo mondiale: la tensione tra fede e religione.

Osserva in proposito il Dr. Steeg che “in religione si distingue tra sacro e profano, per esempio, nello spazio, nel tempo e nei ruoli sociali:

1) SPAZIO… sacro (chiesa ecc.) profano (casa, fabbrica ecc.)

2) TEMPO…. sacro (domeniche, feste comandate ecc.) profano (giorni di lavoro)

3) RUOLI SOCIALI… sacro (preti, clero in genere) profano (laici ecc.)


La religione ha una prassi caratteristica: la preghiera, la pratica religiosa ed ha anche un sapere caratteristico: la teologia; ora, se la teologia è fondata sulla rivelazione divina, la Sacra Scrittura è il suo punto di partenza per un confronto ed anche un dialogo con le varie culture che si vengono configurando nei secoli; nel Medio Evo la teologia è stata la scienza centrale a cui tutte le altre si subordinavano; oggi questa posizione di privilegio è in crisi e tutta la problematica dei rapporti tra cultura moderna e fede cristiana, si manifesta con questo confronto tra religione e fede.


”Se la religione predomina nella vita umana, c’è il pericolo di separare i settori e sperare di salvarsi nella prassi della Chiesa e non in quella della vita”… “non si tratta di desacralizzazione, ma di sacralizzazione generale”; col che non si nega affatto la necessità per l’uomo d’oggi, di un po’ di sacro per esprimere compiutamente la dimensione interiore della sua fede, ma c’è il rischio dell’alienazione, ”Dio stesso può diventare un idolo e, in quanto tale, alienante”.

L’istituzione è necessaria, ma fino ad oggi si è insistito troppo su di essa e troppo poco sulla fede personale, sulla coscienza, sulla libertà ecc.


Il Dr. Steeg sintetizza in due immagini contrapposte della Chiesa, la situazione attuale: c’è la Chiesa ovile che include l’idea di difesa, quindi di stasi e la Chiesa-gregge itinerante la quale include il rischio, ma anche la fiducia nella Spirito Santo che soffia su tutto il gregge e allevia la responsabilità di chi guida; da questa impostazione del problema, discendono conseguenze che, se da un lato possono dar luogo a qualche perplessità circa i modi di realizzazione talvolta improntati ad un pragmatismo assai spinto, dall’altro annunciano tempi nuovi in cui una maggiore e più responsabile aderenza al messaggio evangelico, può avere un’incidenza assai profonda in tutte le varie dimensioni della realtà, da quella più intimamente personale a quella più largamente sociale e politica; ciò include naturalmente una revisione del metodo e dei contenuti dell’educazione alla fede cattolica (v. catechismo olandese), della preparazione dei sacerdoti, dei rapporti tra gerarchia e popolo di Dio, dei rapporti tra Chiesa e Stato, tra cattolici e no, tra credenti e no ecc.; nessuno di questi problemi appare risolto definitivamente anche perché i cattolici olandesi di avanguardia rifuggono da ogni soluzione definitiva ed amano insistere sulla necessità di una posizione improntata insieme al rigore e all’umiltà, una posizione di continua ricerca.


Ma vediamo più concretamente come si configura oggi la Chiesa Cattolica in Olanda; il Dr. P.G. Van Hoojdonk, direttore dell’Istituto per la formazione pastorale ad Amsterdam, sostiene che, dopo l’ultima guerra mondiale, si è avuta in Olanda, una trasformazione della chiesa cattolica da popolare a volontaria intendendo con i due termini, da un lato la chiesa-istituto legalistico, basata sull’obbedienza passiva e sulla tradizione, dall’altro la chiesa-istituto democratico di cui fanno parte i cattolici che sono tali per convinzione personale; si è avuta quindi una progressiva aconfessionalizzazione dei cattolici per esempio negli istituti di carità che sono divenuti istituti di assistenza sociale completamente sganciati dallo Stato; quanto poi alla preparazione dei sacerdoti, i seminari maggiori sono stati aboliti; si sono invece istituite nelle maggiori città, varie facoltà di teologia dove gli studenti non sono vincolati al sacerdozio e purtroppo molti vi rinunciano a causa dell’obbligo del celibato.


Dopo gli studi di teologia, gli aspiranti sacerdoti intraprendono una specie di tirocinio presso l’Istituto Pastorale; qui infatti si occupano del catechismo, della predicazione, fanno visite alle case, assistono ai colloqui pastorali ecc.; ognuno presenta poi una relazione sul proprio lavoro, e questa viene discussa all’interno di vari gruppi che sono composti da circa dieci persone tra studenti e professori.

Questi stessi gruppi di cui fanno parte anche un sociologo ed uno psicologo, studiano inoltre, i modi di comunicazione tra studenti e popolo; come si può notare, la preparazione del sacerdote è in gran parte basata sull’esperienza pratica, sul contatto diretto con la realtà sociale, psicologica, politica e insomma largamente umana a cui l’azione pastorale sarà poi dedicata.


Sociologia e psicologia sono termini che ricorrono assai spesso nelle conversazioni con le varie personalità incontrate ed effettivamente si ha l’impressione che la nuova teologia, quella cioè che si è venuta sviluppando dalle conclusioni del Concilio Vaticano II, non possa più fare a meno di queste due scienze; esse infatti, servono a dare concretezza scientifica alla dimensione orizzontale del cristianesimo.

I rapporti tra gerarchia e popolo di Dio, alla luce dell’impostazione di base esposta di sopra, acquistano caratteristiche del tutto particolari come si può notare osservando il funzionamento del Concilio Pastorale di cui il Dr. R.V. Huysmans dell’Istituto pastorale della provincia di Olanda (il PINK), a Rotterdam, fornisce il seguente quadro: ”il Concilio Pastorale comprende sette diocesi con sette vescovi e due ausiliari; non ha alcuna forma giuridica obbligatoria; il suo scopo è riunire il popolo di Dio in una forma concentrata per il rinnovamento”; i vescovi si riuniscono a gruppi separati con laici, preti, religiosi, esperti, giornalisti ecc. formando un gruppo di circa 110 persone: nove vescovi, dieci rappresentanti per diocesi (sette laici e tre sacerdoti); dieci religiosi; restano poi circa quindici seggi che vengono assegnati secondo il volere dei vescovi; della commissione di studio fanno parte conservatori e progressisti; si cerca di sondare l’opinione pubblica con inchieste i cui risultati sono poi sottoposti all’Istituto di Sociologia applicata per essere studiati a fondo; la posizione dei vescovi nell’assemblea non è privilegiata, essi sono i primi a votare, ma la posizione del vescovo influisce se è valido quello che dice; quanto alle persone che partecipano all’assemblea non è il vescovo che le sceglie, ma la diocesi; di solito ci si informa presso movimenti di lavoratori e poi si discute sui nomi proposti.


La funzione specifica della gerarchia non è più ravvisata nella distribuzione dei valori centralmente formulati perché i valori già formulati (sostiene la Chiesa cattolica progressista di Olanda) non funzionano più; il laico non deve aspettarsi dalla gerarchia alcunchè di precostituito; il vescovo ha bisogno dei laici per meglio vedere la realtà nel suo insieme, nè appare più lecito distinguere i valori dogmatici, liturgici etici dalla realtà, ma essi stessi devono avere rispondenza in una realtà sociologica.


A chi obietta che la nuova teologia può apparire assai simile ad un certo tipo di psicosociologia, si risponde che anche la teologia classica, col suo schema piramidale (v. schizzo di seguito) rispecchiava un certo ambiente sociologico feudale e che oggi ci si orienta in un’altra dimensione sociologica, anche perché si è scoperto che la teologia non risolve nulla se non tiene conto della vita vissuta.


Ed è ancora sulla totalità dell’esperienza umana che si basa il nuovo Catechismo; per comprendere questo, basta confrontare il modo in cui è presentata la figura di Cristo nel testo del Catechismo Classico e quello invece che si può notare leggendo il Catechismo Olandese “una introduzione alla fede cattolica”; nel primo ci viene presentata un’arida formula: ”una persona in due nature...”nel secondo, Gesù ci sta dinanzi nella sua complessità di essere umano e divino insieme così come in fondo, appare nel Nuovo Testamento. ”Noi dobbiamo stare sulla terra e non innalzarci ad altezze insondabili per capire il Messaggio di Dio “è quanto afferma, riecheggiando il catechismo, il Dr. J.B. Memelsoet che ha collaborato appunto alla stesura del famoso testo; occorre misurare tutto il nostro agire umano sulla Sacra Scrittura ed è compito dei sacerdoti interessare la gente sulla base appunto della S. Scrittura.

Il lavoro dell’Assemblea Pastorale comincia nella parrocchia, in piccoli gruppi dove si osservano i grandi problemi (terzo mondo, pace, guerra, violenza e non violenza, strutture della Chiesa ecc.) sempre alla luce della Bibbia.


Questi che ho cercato di esporre, sono alcuni dei motivi ricorrenti e degli aspetti caratteristici del Nuovo Cattolicesimo Olandese e certo non se ne potrebbero spiegare le cause se non tenessimo conto della particolare situazione storico-sociologica di quel Paese; quindi è necessario ricordare l’atteggiamento tollerante e aperto che ha caratterizzato costantemente questo antico popolo di mercanti, la presenza stimolante dei riformati, le condizioni economiche attuali che favoriscono un relativo benessere, sebbene il Paese non vada esente da alcune delle più note piaghe del sistema capitalistico, come un certo numero di disoccupati ed una frequenza non altissima dei giovani provenienti da famiglie operaie all’Università; rappresentante ideale dello spirito di apertura e lealtà in cui gli Olandesi amano riconoscersi, è Erasmo da Rotterdam la cui causticità nei confronti della Curia Romana, mi pare sia passata in qualche misura, mutati i tempi, in vari teologi Olandesi contemporanei.


Concludendo, penso che l’esperienza post-conciliare della Chiesa Cattolica Olandese, almeno nella sua parte più impegnata, presenti una grande ricchezza di contenuti e proposte valide per qualunque sociologo che non trascuri l’ importanza della fede come componente fondamentale.











Viaggio a Parigi dal 14 al 22 settembre 1968

Partiamo sabato 14 settembre per Firenze, dove Gloria, Olga ed io ci incontriamo con gli organizzatori del viaggio, cioè i membri del circolo culturale “La Meridiana”, via della Fortezza, 6; prendiamo gli accordi di rito e ce ne andiamo a cena in un self-service davanti alla stazione.

Alle 19,30 saliamo sul treno dove ci vengono promesse le cuccette appena arriveremo a Bologna; nel nostro scompartimento ci sono due giovani sposi, i coniugi Chiesi.


A Milano salgono quattro signori di cui uno assai caratteristico: alto, atticciato, il viso incorniciato da una fitta barba nera, baffi ltrettanto scuri, ha una voce stentorea e parla molto; saprò poi che è Ettore De Giorgis, un simpatico giornalista; poi c’è un tipo robusto, dalla fisionomia un po’ inglese, ha l’aria scontenta e tace, c’è un giovane mingherlino, biondo con piccoli occhi celesti nel viso un po’ irregolare; si muove a scatti come un grillo e spesso guarda fuori dal finestrino; più tardi scoprirò la sua incredibile carica di umanità e di intelligenza, è Bruno Rolando.

Si dormicchia, si parla un po’, si va a fare due passi nel corridoio; Gloria ed io, prudentemente coperte dal rumore del treno, cantiamo a squarciagola ”Chiesa chiesa” di Giovanna Marini, una ballata molto critica nei riguardi della Chiesa Cattolica.


Domenica 15 settembre ore 10,40

Arriviamo a Parigi e ci dirigiamo al Centre inernational du sejour in rue Ravel, un ostello della gioventù; ci vengono distribuite le chiavi e possiamo finalmente rinfrescarci un po’.

Scendo per il pranzo nel self-service in cui mangeremo per tutto il tempo del soggiorno.

Verso le 14,30 si esce per un giro turistico in città; il pullman che ci ospita è grande e moderno, a due piani; saliamo sul secondo e i bei palazzi, le grandi strade, cominciano a sfilare davanti a noi.

C’è molta gente per le vie e parecchie persone sono di colore: neri, gialli, mulatti; splendide costruzioni scorrono, intanto, davanti a noi: le Tuileries, il Louvre, Notre-Dame. Nella foto la sua imponente guglia e la vista sulla Senna.



Mi colpisce la grandiosità dei boulevards e la dolcezza della Senna.

Ritorno, cena, poi trottata a piedi fino al mètro e scarrozzata fino a Montmartre, alla Chiesa del Sacre Coeur dove ascoltiamo la messa delle 22,00.


Noto che è una celebrazione un po’ tradizionale, mezza cantata e mezza sussurrata; trovo l’ omelia piuttosto convenzionale, anche se, supera di gran lunga quelle cui sono abituata al mio paese, ma la cosa che mi rallegra di più è l’aver capito tutto anche se il sacerdote, come è ovvio, ha parlato in francese.

Dopo la messa, facciamo un giretto per Montmartre. Notevole il colpo d’occhio che si gode dal sagrato della chiesa, la città illuminata, la Ville-Lumière si stende in basso a perdita d’occhio.

Si cammina per strade strette, tra taverne rustiche e casette di abitazione a un piano; il selciato è sconnesso e faticosissimo; si incontrano molti capelloni e clochards assai pittoreschi con i loro pastrani di pelle e le chitarre; assistiamo anche ad un happening molto modesto ma assai applaudito.

Qualcuno canta accompagnandosi con la chitarra, qualche altro dipinge su cavalletti male in arnese, qualche altro ancora, vende caratteristici gattini fatti con fili di piombo, rivestiti di lana disposti su bancarelle o per terra, tra varie candele accese.

Andiamo a bere in un piccolo bar che si affaccia su di una piazzetta e discendiamo di nuovo verso il mètro.


Lunedì 16 settembre

Dopo la solita colazione a base di caffè e latte, burro e marmellata, ci dirigiamo verso la redazione della rivista “Terre Entière” dove ascoltiamo una conferenza del direttore monsieur Robert De Montvalon, un bell’uomo sulla quarantina dallo sguardo magnetico e azzurrissimo. In un francese chiaro e scorrevole, egli parla dei problemi del terzo mondo affermando che gli Occidentali non possono disinteressarsi di questi problemi perché essi li toccano da vicino.

Qualcuno fa domande cui De Montvalon risponde con precisione.


Dopo, mi metto a conversare con i coniugi Chiesi che mi invitano ad andare con loro a vedere gli impressionisti a Jeu de Paume.

Mètro, camminata ed ecco davanti a noi Degas, Monet, Cèzanne, Seurat,Manet, Corot e tutti gli altri splendidi artisti.

Passeggiamo in centro e ci fermiamo a guardare i libri in una libreria inglese; dopo cena il gruppo si riunisce per discutere sulle affermazioni del direttore di Terre Entière, Gloria ed io notiamo le persone che ci sembrano più intelligenti e preparate.





Martedi 17 settembre

Gloria ed io ci dirigiamo verso l’ Arco di Trionfo e ce ne andiamo alla svagata per Boulevard des Champs Elisèes godendoci la bella mattinata; sfortunatamente il martedì i musei sono chiusi ed anche l’ascensore della Tour Eiffel è fermo, così ce ne andiamo ai giardini dopo aver sorbito un caffè (carissimo) in un piccolo bar.

Grandi ippocastani ombreggiano prati verdissimi e curatissimi; una bella fontana getta spruzzi di acqua luminosa nel sole.; ci fermiamo a parlare di questioni assai profonde come i problemi suscitati dall’enciclica “Humanae Vitae” pubblicata di recente da Papa Paolo VI sulla sessualità.


Nel pomeriggio è previsto un incontro con père Blanquart, domenicano, in rue de Jacob; il padre è vestito come un operaio, indossa una camicia blu senza cravatta, sotto un completo grigio; niente denota la sua appartenenza ad un ordine religioso; è abbastanza giovane, sui 35 anni ed ha uno sguardo un po’ allucinato, sorride cameratesco, giovanilmente spettinato; la sua faccia larga e colorita, la corporatura robusta lo farebbero ritenere più un buon contadino che un monaco; parla con semplicità e arguzia.

Stupisco: è la prima volta che mi capita di sentire un domenicano che si definisce apertamente marxista; è stato a Cuba ed ostenta una grande ammirazione per Fidel Castro; sostiene la perfetta compatibilità tra fede cristiana e metodo marxista di azione sociale.

Secondo lui la fede del cristiano interviene quando si tratta di dare un volto umano al marxismo, come completamento umanistico di una dottrina sociale; ne sono entusiasta; non tutti la pensano come me, ma la vivacità del frate ha conquistato l’uditorio e, guidati a gran voce da Ettore, grande amico del père, ci dirigiamo a marce forzate, verso un irraggiungibile ristorante cinese dove ci si promettono le pietanze più strane.


Assaggiamo anche noi alcune pietanze cinesi dai sapori… diciamo… insoliti… e ripartiamo di gran carriera verso la libreria “Maspero” specializzata in pubblicazioni di estrema sinistra; vi toviamo effettivamente molti testi ispirati alle ideologie cinesi, cubane e orientali.


Mercoledì 18 settembre

Dopo colazione Gloria ed io partiamo per andare a sentire il direttore della rivista “Lettre”; questo direttore è un uomo un po’ anziano, asciutto, con un’espressione amara sul volto; parla con la solita chiarezza e brevità tipicamente francesi e racconta qualche episodio dove si dimostra l’intolleranza della Curia romana di fronte a certe posizioni avanzate che la sua rivista aveva sostenuto tempo fa.

Per ben tre volte dovettero rinnovarsi cambiando titolo; ci vengono distribuite copie della “Lettre” e volumi del famoso catechismo olandese introvabile in Italia; l’intervista è stata assai interessante e usciamo discutendo animatamente.


Dopo cena ha luogo la consueta discussione di gruppo e io mi scaglio contro i “conservatori” i quali a parer mio, non vogliono capire che, come dice Bernanos “l’Evangile est toujour jeune” e noi siamo vecchi.


Giovedì 19 settembre

Mattina: parto con Ettore de Giorgis, Maria Bracco e Piera Chiesi appartenenti al nostro gruppo, alla volta della redazione di “Informationes Catholiques Internationals”; ci riceve un signore assai “charmant”, alto, biondo, atletico, dallo sguardo azzurro; ci illustra la posizione della sua rivista ed io scappo fuori con una delle mie sortite meno felici, dico cioè che quel suo atteggiamento moderato mi sembra un “compromis”; il conferenziere mi risponde che se ci si vuole barcamenare, bisogna scendere a patti, ”…siamo di carne ecc. ecc.” io replico che questo atteggiamento rischia di non orientare nel senso giusto quelli che guardano dal basso e lui, pazientemente mi dà ragione; dopo un’interminabile domanda di Ettore ed un’altrettanto interminabile risposta, io mi complimento con il direttore di I.C.I. e gli comunico che il centro culturale a cui aderisco, è abbonato alla sua interessante rivista; il bel signore mi risponde con un’elegante battuta: dice che questo gli fa piacere perché di solito le lettere degli abbonati sono di tutt’altro tono; abbiamo perso il pranzo e per di più siamo senza franchi, ma troviamo una banca, cambiamo e ci sediamo in un piccolo ristorante.


Tornati a casa, Olga, Gloria ed io usciamo per compere; ci fermiamo ai Grandi Magazzini la Fayette e poi andiamo a curiosare nelle librerie di S. Sulpice.

Cena e poi galoppata fino a Boulevard de Clichy ossia a Pigalle; la strada è molto affollata e rigurgita di locali dove si fanno streap-tease e si proiettano film cochons; foto pornografiche ostentano particolari anatomici e nudi femminili in tutte le pose; la gente non sembra farci molto caso.


Venerdì 20 settembre

La mattinata è libera ed io non so cosa fare; Gloria è uscita con Olga; Bruno è andato alla mostra di arte moderna; vorrei avvicinare i coniugi Quaregna ed eccoli qua gentili e sorridenti che mi invitano a visitare con loro la Sorbonne; non me lo faccio dire due volte e andiamo a visitare l’antica università; i miei amici mi raccontano la loro esperienza comunitaria: hanno messo in comune tutti i loro averi e vivono a Torino con i loro amici, una specie di comunismo cristiano molto ineteressante.

La Sorbonne ha l’aspetto di un ristorante; all’interno i corridoi sono stretti e bassi di soffitto; il cortile della Sapienza, piuttosto ristretto e non certo bello come quello di Pisa, è cosparso di cartacce; studenti di ambo i sessi vi si muovono tranquillamente; alcuni vendono giornali su di una improvvisata bancarella, ne compro un esemplare per ogni tipo: abbondano di vignette antigaulliste.

In un’aula piuttosto affollata, si stanno formando dei gruppi; c’è un tizio che parla in un megafono ed altri che scrivono su di una lavagna.

Dopo aver osservato un po’ la scena, usciamo e andiamo a curiosare in tutte le librerie del quartiere; ci fermiamo al Pantheon e, pagato il biglietto di entrata, ci mettiamo ad osservare l’ interno: è il trionfo della retorica patriottarda associata ad un cattolicesimo di tipo costantiniano: brutti affreschi alle pareti narrano la storia di S. Genoveffa protettrice di Parigi; altri affreschi riproducono la Pulsella di Orlèans in pose alquanto convenzionali; stessa sorte è toccata alle storie di Luigi IX il re santo.


Ce ne torniamo a casa attraverso il meraviglioso Parco delle Tuileries.

Il nostro pomeriggio è davvero impegnativo: ore 13,30 intervista al père Danièlou; ore 15 incontro con il segretario del bureau de jeunesse; ore 17 intervista al père Jean Marie Domenache; ore 21 incontro con uno studente di Nanterre.

Il père Danielou pranza con noi e subito è circondato dai più interessati: io sono in prima fila…

Il père si dichiara assai ottimista riguardo all’interesse suscitato dai corsi di teologia vista la numerosa partecipazione dei laici; il nostro capogruppo, Romanello Cantini gli pone alcune domande circa la sua posizione tra innovatori e conservatori; il vecchietto (sulla sessantina) che sembra il mago delle fiabe così segaligno, occhialuto e zannuto com’è, risponde con vivacità dichiarando che è d’accordo con chi vuole attuare riforme moderate; condanna perentoriamente gli innovatori più spinti come Cardonnel per il quale ha parole assai dure; giustifica la posizione del Papa e sostiene l’impossibilità di conciliare comunismo e fede cristiana; io gli domando se comunque ritiene possibile un certo rapporto, se non con il comunismo istituzionalizzato, almeno con un metodo di azione sociale di tipo marxista; lui mi risponde, con un sorrisetto stereotipato, che il Cristianesimo privato della sua dimensione verticale, si ridurrebbe ad un semplice tipo di socialismo; insiste sulla necessità di salvaguardare il Patrimonium Fidei del Cristianesimo ed io replico domandando se non crede che, così facendo, non si corra il rischio di perdere il treno, cioè di non aver più nulla da dire al mondo moderno; il père ripete i concetti già espressi ed io lo guardo con l’aria poco convinta. Ettore esce rumorosamente dalla sala evidentemente scocciato.


Ore 14,30 partenza per il bureau de la jeunesse dove avremo un incontro ufficiale con un rappresentante del governo; ci sediamo in una sala stretta e lunga; a capo tavola c’è un anziano signore dal sorriso perpetuo e l’atteggiamento paternalistico del burocrate in fase distensiva ad alcune precise domande sulla situazione studentesca e i fatti di maggio (la barricade), non risponde e intavola invece un lungo discorso sulle attività del bureau preceduto da un “benvenuto” che stimola le qualità satiriche di Bruno il quale mi passa un foglietto dove ha scritto: ”al mio paese i tipi di questo genere si chiamano trapanati” (trapanare=lavare il cervello); un grosso ragazzo napoletano, Tortorelli de “Il Tetto” aggiunge che a casa sua il tizio sarebbe un Ciucciuvettole (richiamo per civette).


All’uscita i Milanesi continueranno la piccola digressione filologica aggiungendo al medesimo proposito, il termine ”pistola” che definiscono intraducibile; intanto il vecchietto ci affoga in un mare di statistiche e ci carica di pesantissime riviste in carta patinata di gran lusso, zeppe di foto.

Ce ne andiamo di corsa a sentire Domenache; il famoso padre domenicano indossa un elegante completo marrone e porta la cravatta; riesco a vederlo solo per un istante perché la saletta in cui parla è incredibilmente affollata.

Io non seguo molto perché sono stanca e non ho sufficienti cognizioni in campo politico, però noto che il père sta lodando la politica estera di De Gaulle e propone una vaga Europa intera compresi i Paesi dell’Est.


Ho dimenticato di annotare che, di ritorno dall’incontro con il direttore della “Lettre” ho intavolato un lunga discussione con Tortorelli, direttore della rivista “Il Tetto” di Napoli.

A parte varie considerazioni, mi ha colpito una notizia: lui conosce don Bedeschi il quale gli ha mostrato (mi sembra assai strano…) certi documenti della Curia romana che non ha potuto pubblicare per espresso divieto della gerarchia: si tratterebbe niente meno che degli atti del processo di beatificazione del Papa Pio X in cui il cosiddetto “avvocato del diavolo” accuserebbe Papa Sarto di non aver saputo cogliere i fermenti di rinnovamento del suo tempo e cioè il modernismo.

Dopo cena incontriamo lo studente di Nanterre; il giovane Bernard è abbastanza simpatico; espone la situazione degli studenti divisi in varie tendenze: ci sono infatti i trotschisti, i maoisti, gli anarchici, i marxisti e i marcusiani; il giovane mostra grande interesse per il nostro Luigi Bobbio e gran considerazione per Longo; disprezza invece Valdeck-Rochat.


Sabato 21 settembre

Guidati da Ettore, Anna, Bruno ed io ci dirigiamo alla volta della redazione della rivista “Esprit” per incontrare madame Paulette Mounier, vedova di Emanuel; è una signora di classe sulla sessantina, con capelli grigi cortissimi e sorriso giovanili; ci accoglie con molta cortesia e risponde con semplicità alle interminabili domande di Ettore; ella ci illustra la situazione che venne a crearsi alla morte di suo marito, il filosofo; ci parla della collaborazione tra Mounier e Domenache; ci illumina circa la posizione degli “Amis de Mounier” che controllano la pubblicazione delle opere del pensatore.

A detta di madame, in Italia è stato pubblicato poco e male; poi la signora ci dice che a maggio uno studente è venuto da lei a chiedere una frase di Mounier da riprodurre su di un cartellone contestatario, così lei ha potuto notare quanto interessi ancora i giovani il pensiero di suo marito.

Bruno domanda qualcosa circa la fortuna di Mounier presso i gruppi spontanei e la signora risponde, visibilmente compiaciuta, con ampiezza di particolari.

Io chiedo indicazioni utili per conoscere la pedagogia di Mounier e mi viene consigliato il “Traitè sur le caractère”; lo comprerò.


Domenica 22 settembre

Ormai il nostro soggiorno parigino è finito; si torna a casa con un apprezzabile bagaglio di esperienze.

Sul treno, in cuccetta, ripenso agli incontri, alle discussioni e mi riprometto, appena possibile, di annotare tutto in uno scritto per non dimenticare nulla di questi giorni.





Viaggio in Grecia - 11 Agosto 1960


Ieri, dalla stazione ferroviaria di Follonica, è iniziato il mio viaggio in Grecia; sul treno ho incontrato le mie amiche ed abbiamo proseguito in allegria.
Abbiamo attraversato il paesaggio tipico della Toscana passando poi alle grandi estensioni verdi con altissimi alberi collegati tra loro da festoni di pampani e una zona brulla e grigia tipici delle Puglie.

Ora siamo a Bari alla pensione Giuliana.
Alcuni facchini ci sono piombati addosso come beccamorti, ci hanno strappato di mano le valigie parlottando in dialetto e si sono diretti in gran fretta verso la pensione; ci hanno fatto entrare in un andito assai mal messo con i muri scalcinati; alcune donne discinte danno ai locali un’aria di casa equivoca.

Tre di noi sono salite a dare un’occhiata alle stanze; Mila ed io siamo rimaste in basso ad aspettarle; uno dei facchini ci ha invitato a nome delle altre tre, a salire con tutti i bagagli.
Io ho pensato subito ad una organizzazione criminale per la tratta delle bianche e ho espresso con molta decisione il desiderio di vedere di persona una delle nostre amiche. Mi hanno accontentata e tranquillamente siamo salite.


La pensione è pulita e confortevole nonostante che sia abbastanza a buon prezzo. Abbiamo dormito in due camere; Gigliola ed io abbiamo passato buona parte della notte, sveglie a parlare di tante cose; ma prima di andare a dormire, abbiamo fatto una passeggiata in città.

Bari ci appare nelle sue caratteristiche di città meridionale: tetti a terrazzo, case bianche ma con in più una opulenza degna del Nord o dell’Oriente favoloso nella parte nuova: strade larghe, palazzi imponenti dalle architetture moderne.

Alle dieci di sera incontrare donne è raro e quelle poche sono costantemente accompagnate da congiunti. Noi ce ne andiamo baldanzosamente a naso in aria commentando scherzosamente il paesaggio.
Qualche giovanotto ha voluto sottolineare il nostro passaggio con una frase galante, non certo originale, ma neanche volgare; qualcuna di noi ha avuto l’impressione che un tale ci pedinasse; un po’ di brivido ci ha fatto rientrare.


Il giorno dopo, alle 12,00 prendiamo il treno per Brindisi: aria brillante, magnifico tempo; dopo una faticosa corsa per tutta la città alla ricerca del “Credito Italiano”, cambiamo il denaro: una dracma vale £. 21,50.

Conversiamo in treno con alcuni “indigeni” che difendono la loro emancipazione anche riguardo alle donne specie in confronto con la Lucania e la Sicilia.

Arrivo a Brindisi: panini, acqua minerale, poste, cartoline; incontro con altri della Pro Civitate Cristiana di Assisi che ha organizzato il nostro viaggio, trasbordo dalla stazione al porto su di una carrozzella; risate, allegria, battute facili.

Alle undici S. Messa in cattedrale: Te Deum e discorso retorico; incontro con tutti i partecipanti al viaggio. Come prevedevo, si tratta di molte ragazze del tipo medio-per bene-racchietto con qualche rara fac-totum.
I ragazzi, rarissimi, sono anche loro del tipo perbene-bruttino con qualche venatura di ascetismo; le mie amiche ne sono deluse.

Sul mare, verso sera c’è un’aria sospesa, satura di colore; passeggiamo nel corso dove si muove molta gente nel buio incipiente; ore 21 seccature con la dogana come riempire un questionario e far vistare la carta d’identità.


Dopo aver cenato sul porto, saliamo a bordo; la nave Egnazia è bellissima, fiammante. Si parte; le luci del porto si allontanano lentamente; comincia a far fresco sul ponte; ci ritiriamo sulle nostre poltrone all’aperto per dormire.
A mezzanotte un altoparlante ci avverte che occorre rimettere l’orologio un’ora avanti.

La mattina alle 5 mi sveglio; il cielo appare bianco-lucido ad oriente e celeste-grigio fondo ad ovest; costeggiamo una terra montuosa che appena si distingue nella foschia, dev’essere l’Albania.

Verso le 9 giungiamo a Kerkira = Corfù; si notano colli boscosi ai lati di monti brulli come cocuzze di vecchi saggi cinesi; poco dopo siamo a Igoumenitza che si presenta con l’aspetto di un paese; ai cancelli di accesso al porto vedo gente mal vestita…mi pare; casette basse, chiare, molto modeste.
Alle 11 S. Messa a bordo, alle 11,50 pranzo a base di riso e piselli, polpettone con zucchini e patate, uva; ora stiamo navigando verso Patrasso; abbiamo costeggiato per un certo tratto l’Epiro ed io non vedo che cielo e mare; raggiungo le mie amiche sul ponte.

Cantiamo e scherziamo spensieratamente e verso le otto sbarchiamo a Patrasso; la solita gente male in arnese dallo sguardo lontano si accalca ai cancelli del porto.


Qualche indugio per le pratiche di dogana e poi al Sima cioè il migliore ristorante della città per la cena; qui conosciamo Nico un vivace ragazzino quattordicenne che si prodiga per farci avere “ladi ke kidi” (olio e aceto) e poi “nerò criò” (acqua fresca).

Verso le 11 andiamo al Britannia a dormire; il giorno dopo alzata bersaglieresca alle quattro; colazione a base di caffè turco con una goccia di latte e panino con marmellata.

Partenza per Pyrgo, Olimpia, Langadia, Tripolis, Argo, Nauplia. Per la strada incontriamo muli, donne col capo coperto, uomini sul dorso dei muli; solitudine e miseria, per quanto, come dice una delle nostre guide, solo apparente.

Casette costruite con pietre squadrate calcinate, bianchissime e malandate a un solo piano. Passando vedo una donna che fila tenendo una conocchia coperta di lana con la mano sinistra e traendone il filo con la destra.

Si vedono distese di uva passa posta a seccare su specie di forni d’argilla rossa.

Pyrgo, capitale dell’Akaia pare un paese italiano come erano i nostri paesi prima della guerra. Ad Olimpia: rovine imponenti con vari monumenti; al museo la signorina Elide (cicerona) ci mostra il frontone del tempio di Zeus del Partenone; la vittoria alata di Paionios, Ermes di Prassitele, statua in terracotta pitturata (ratto di Ganimede).


Si riprende il viaggio per Langadia, una graziosa cittadina con le case disseminate sul pendio di un alto colle; poco dopo, paesaggio lunare, dopo ancora, Arcadia: boschi di abeti verde-azzurro, alti monti brulli, rare piccole pianure di un verde pallido; colli conici rivestiti di piccoli cespugli verdissimi con rari alberi alcuni dei quali molto piccoli.

Si notano paesi annidati tra le anfrattuosità dei monti, piccoli pali della luce, muli, asini, gente mal vestita. Sui muri delle casette di pietra lungo la via si vedono grandi scritte in rosso e in nero; strada stretta, rari automezzi.

Arriviamo a Tripolis: gente col mulo e con grandi macchine americane; sosta e pranzo a base di melanzane con besciamella, roastbeef e patate, anguria e uva (karpuzi e stafilia).

Si parte per Nauplia nell’Argolide, in pulmann si sentono canti della montagna. Strada a grandi curve; abbondanza di automezzi.


Passaggio per Argos: visione di Tirinto (mura di Ercole) e arrivo a Nauplia, graziosa cittadina sul mare.

Il giorno dopo S. Messa e comunione in una chiesetta molto suggestiva; partenza per Epidauro, Teatro antico, albergo confortevole; Tirinto e Micene dove si trova la tomba di Agamennone, Argo e Corinto con il suo istmo.

Siamo ad Atene meravigliosa con l’acropoli illuminata; a letto ore 24,30.
Alzata, S. Messa nella Cattedrale Cattolica di Atene; visita dell’acropoli: cose meravigliose. Ritorno, pranzo con spaghetti e a letto.

Ore 16,00 passeggiata in città e gelato; divido una stanzetta al settimo piano dell’ Arcadia con Mila C.; caldo soffocante ,ma c’è un terrazzino da cui si gode, col fresco, una bella vista dell’Acropoli e della città.

Il giorno dopo, visita del museo archeologico: sogno ori, gioielli, forme celesti, korai meravigliose e kouroi stupendi; l’Arcivescovo Cattolico di Atene tiene un breve discorso: niente retorica, solo alcune informazioni di carattere scientifico sull’edificio e sulla situazione generale del cattolicesimo in Grecia; dice che i rapporti tra la religione greco-ortodossa e il cattolicesimo sono molto stretti; unico scoglio quello del riconoscimento del Papa.

Giorgio Poffandi, nostra guida, dice che il fatto del Papa è una questione di forza: ”chi ha più forza vince.


Ore 16,00 partenza per Capo Sounion: meraviglioso susseguirsi di mare e di scoglio; arriviamo in un luogo stupendo; scherzi e giochi sulla spiaggia ghiaiosa. L’acqua è di una limpidezza incredibile resa più diafana dai colori del tramonto.

Un’antica leggenda dice che il desiderio espresso da una fanciulla al Capo Sounion quando il sole sta per tramontare, si avvera; un attimo di sospensione e scoppiano le più allegre risate perché ognuna di noi ha indovinato il desiderio espresso dalle altre.

Ceniamo a base di pasta con besciamella e carne, solita verdura e frutta ed infine arriva don Giovanni Rossi il prestigioso fondatore della Pro Civitate di Assisi.


Dopo cena si intonano a gran voce i canti più eterogenei; ci fermiamo a guardare un giovane prete che si dà un gran daffare per dirigere un improvvisato coro di ragazze e ragazzi.

Io noto una certa aria di voluta allegria in tono ecclesiastico, con qualche punta di umorismo grasso e senza sale; mi pare un voler mostrare una spregiudicatezza di facciata che sa di polemica, come a dire ”non siamo colli torti noi”.


Ritorniamo ad Atene e saliamo all’Acropoli; in silenzio assistiamo ad uno spettacolo che può essere definito stupendo, indimenticabile oppure oleografico a seconda dei gusti. Potenti riflettori investono di luce bianca il Partenone traendone toni lunari assai suggestivi, creando ombre e riverberi tenerissimi sulle altre rovine dell’Acropoli.
Poi il tono dal bianco passa ad un rosa incarnato e, cambiando la posizione dei riflettori, cambiano le ombre creando quadri sempre nuovi e suggestivi di un romanticismo assai facile.


Io preferisco l’Acropoli nel pieno fasto del mezzogiorno come l’ho vista ieri; le forme felici e pure delle cariatidi, investite in pieno dal sole e da un azzurro senza macchia, esprimono l’ingenuità degli antichi, la loro vita irriflessa, solare, pura. Le colonne del Partenone traducono, nella loro armonia, la felicità del sole e del cielo.



Ora il discorso piuttosto retorico di don Giovanni Rossi fa per me la degna cornice a questa oleografica edizione dell’Acropoli in veste romantica.

Il giorno dopo si fa un gran ridere nel gruppo delle mie amiche per la mia “avventura galante”..tutto qui: un giovane di colore, sudanese, che ho incontrato due volte in ascensore, ha voluto stringermi la mano e invitarmi, a forza di cenni, in camera sua a mangiare il piccolo karpuzi che porta in braccio.
Dapprima non capisco il senso dei suoi gesti, ma poi scappo via un po’ scandalizzata.

Salutiamo Atene e partiamo alle 6,00 per la Beozia che si presenta con qualche caratteristica simile un po’ alla nostra campagna italiana; si comincia a vedere qualche pianura verde, gli alberi sono meno rari; i coltivati mostrano le stoppie rimaste dopo la falciatura e si vedono anche nei campi, alcuni attrezzi e macchine agricole moderne.

Alla chiesa bizantina di Ossios Lucas troviamo oggetti caratteristici: si tratta certamente di una sosta obbligata per i turisti. La chiesa è grande, tutta fatta di mattoni rossi; mi fa pensare a qualche novella di Checov dove si parla di pellegrini che sostano nei conventi.


Incontriamo un gruppetto di popes dalle tonache lise e sporche; hanno la barba lunga e unta, i capelli lunghi curiosamente annodati dietro. Ne ho visti molti, grandi. corpulenti, maestosi e incridibilmente sporchi aggirarsi per le vie di Atene.

Qui il nostro sacerdote, insieme con altri del gruppo viene introdotto in quello che penso possa definirsi un po’ come il Sancta Sanctorum del monastero; le donne non vi sono ammesse e a me che cerco di spingermi un po’ oltre la soglia di una stanzetta, specie di sacrestia, uno dei pope-monaci fa segno di retrocedere.

Alle pareti ci sono dei mosaici bizantini molto interessanti, a colori vivi e freschi; su alcuni alti leggii sono posati dei libri rivestiti in tela anche questi piuttosto sporchi. Non mi riesce di vedere un altare,non mi orizzonto.


Esco, il sole sul mezzogiorno circonfonde cupole, alberi e monti. Cerco di fotografare un pope seduto presso il parapetto che sovrasta la scarpata sul piazzale al lato della chiesa; il vecchietto sta sgranando una specie di corona del nostro rosario che qui chiamano spippolo.

Ripartiamo dopo affrettate compere di gonne, piatti, pantofoline di pelo di coniglio. La strada corre tra monti e gole dirupate investite da un sole trionfante.

A Delfhi - è ormai l’uso - scendiamo dal pulmann e cominciamo a salire a piedi il colle per giungere al museo (chiuso), proseguiamo verso le rovine del santuario, ma il sole a picco, la fatica e la fame ci impediscono di capire tutto ciò che la nostra guida racconta.

Ci fermiamo a mangiare all’albergo Castalia, un grazioso alberghetto con una vasta terrazza che si affaccia su un dirupo.


Partenza per Itaca; Ferry Boat per Aeghion e poi per Patrasso.E’ ormai notte quando arriviamo nella cittadina, al solito albergo vicino al porto. A cena ho la possibilità di parlare con Enrico, un ragazzone esperto in fotografie a cui domando chiarimenti sulla Pro Civitate.
Mi accorgo dal suo modo di parlare che ha molta stima di questa organizzazione e specie del suo fondatore.
E’ un giovane pieno di vivacità, infatti non riesce a stare un minuto fermo.


Siccome domattina dovremo partire alle quattro ed è già quasi mezzanotte, decidiamo di stenderci sul letto senza dormire, ma, stanche come siamo, finiamo per appisolarci e la chiamata della capogruppo verso le 3,30 ci coglie quasi di sorpresa.

Partiamo per Janina che è ancora notte fonda ed io, approfittando di questa naturale camera oscura che è il pullman, colgo l’occasione per dare un’occhiata all’interno della mia macchina fotografica: è successo un disastro, il rotolino è stato applicato male per cui delle mie laboriose foto scattatate sull’Acropoli e a Delphi nonchè a Capo Sounion non è venuto proprio niente; devo esercitarmi a fare le fotografie prima di affrontare un’altra gita impegnativa.

Attraversiamo una zona montuosa; la temperatura si è fatta più bassa e l’aria è quasi frizzante; monti, boschi, cavalli e qualche piano di un verde tenue.
Mi appisolo per un buon tratto di strada; al mio risveglio è già giorno. Mi dicono che si è oltrepassato da poco un laghetto rosa attorniato da nere gru.

Verso le 9 arriviamo a Janina, una curiosa città appollaiata sui monti con moltissime caserme e numerosissimi soldati da ogni parte. La strada principale asfaltata è intersecata da brevi strade sterrate tra piccole case bianche.


Una cosa che mi ha colpito a Pyrgo e poi in altri luoghi è vedere i balconcini delle case senza ringhiera. La piccola città ha un aspetto fresco, lindo e fiorito, aspetto che forse le viene conferito dall’ ora mattutina e dalla temperatura un po’ più fresca che nella pianura.

Dopo una breve sosta per la colazione si riparte per Igoumenitza.

Abbiamo cambiato pullman e al posto del silenzioso vecchietto di prima, c’è alla guida Pedro un ometto con un gran paio di baffi sempre in vena di scherzi, schiamazzi e cantate stentoree che, sulla strada piena di curve, si diverte a fare lo spericolato guidando addirittura con la pancia.

A Igoumenitza, dopo le formalità, si sale in nave e la traversata ha inizio. Arriviamo a Brindisi, ci salutiamo; una carrozzella carica fino all’inverosimile ci porta alla stazione.

Mangiamo finalmente un panino italiano con un buon caffèllatte. Il treno ci aspetta sul primo binario, si sale, si sistemano i bagagli e ci si appresta a dormire in uno scompartimento che la Pro Civitate ha riservato per noi.

Salutiamo fuggevolmente il signor dottore, uno degli organizzatori, molto giovane, ma piuttosto untuoso alla barba del quale abbiamo molto riso.


Cerchiamo di accomodarci scacciando un tale che si era accomodato nel nostro scompartimento, ma una volta rimaste sole, ecco una piccola banda di ragazzotti che vogliono entrare a conversare con noi, hanno facce poco rassicuranti e un modo di fare che non ci piace; noi siamo stanche e vogliamo dormire, ma questi tizi continuano ad importunarci.

Io comincio a perdere la pazienza e minaccio di tirare il segnale se non se ne vanno. Finalmente arrivano due suore con una bambina che ci chiedono di farle entrare; le accogliamo a braccia aperte.

Arriviamo a Roma verso le 7,30. Cambiamo treno ed eccoci sulla via del rientro. Boschi, pianure, case ci vengono incontro invece delle lande semi-deserte del Peloponneso. Noi siamo allegre, ma anche un po’ tristi.

L’Acropoli, le colonne di Capo Sounion, Epidauro e il fresco spirare di ambrosia di Olimpia sono ormai solo un ricordo.


Non dimenticheremo la battuta di Gigliola a proposito di quanto avremmo raccontato della Grecia ai nostri familiari; siccome gli orari ristretti del rollino di marcia lasciavano poco tempo alle nostre necessità fisiologiche, lamentavamo tutte una certa stitichezza per cui, il laconico commento suggerito da Gigliola addirittura in termini greci, non poteva essere più esplicito né più comico. Suonava così:

In Grecia? Tutto kalò …niente kakò (tutto bello…niente brutto).




La Scuola in Italia - dalle origini ad oggi

Un breve compendio che parte da ben prima delle origini dello Stato italiano ed arriva sino al 2020, per capire le radici della scuola odierna e della sua struttura.

Pensato per gli addetti ai lavori, ma anche per coloro che desiderano conoscere l'evoluzione dell'istituzione scolastica nel nostro Paese, quando non era ancora tale e che spiega anche il nostro cammino culturale.

Puoi leggerlo o stamparlo da questo link: Scarica il PDF


I miei favolosi anni '30 - Prefazione

Rovistando tra alcuni vecchi quaderni, ho ritrovato degli appunti annotati alla fine degli anni ’90. Sono ricordi, emozioni e pensieri di me, bambina, nei lontani anni ’30.
La lettura di questi scritti mi ha suggerito l’idea di utilizzarli per descrivere certi momenti di vita vissuti ormai tanti anni fa, ma ancora molto vivi nella mia memoria.

I fatti raccontati si svolgono nel mio paese, una Follonica da poco dichiarata Comune nel 1923, un piccolo paese dalle casette basse costruite nelle strade sterrate, piene di sole; un borgo marinaro in origine, affacciato su di uno splendido golfo, diventato poi il centro industriale del Granducato di Toscana grazie a Leopoldo II di Lorena, il granduca illuminato che promosse la bonifica del territorio paludoso e vi fondò uno stabilimento per la lavorazione del ferro prelevato dalle miniere dell’isola d’Elba. Gli abitanti erano in gran parte ex contadini che, provenuti dalle campagne circostanti, attratti dal posto di lavoro offerto dallo stabilimento, erano divenuti operai. Le donne esercitavano quasi tutte l’impegnativo lavoro di casalinghe come spose, madri, sorelle e nonne, a cottimo.

All’epoca della mia infanzia l’Italia era governata dal regime fascista e non mancavano, in paese, persone che, coltivando idee contrarie alla dittatura e avendo subito violenze fisiche e morali da parte delle “squadracce”, sognavano tempi migliori. Noi bambini vivevamo in un mondo povero, ma sereno, lontano dai contrasti politici, il roseo mondo dei giochi e delle fiabe. La casa dei nonni rappresentava, per me, il nido caldo e accogliente in cui potevo godere il premuroso affetto dei miei nonni materni ai quali ero assai spesso affidata dai genitori impegnati in una bottega, come si diceva allora, di “pannina” cioè di abbigliamento frequentata da numerosi clienti sia tra i contadini che tra gli operai.

La strada era il mondo colorato e vivace in cui si muovevano venditori ambulanti, cantastorie e figure caratteristiche, tutti adulti a volte allegramente facondi, altre volte fastidiosamente litigiosi, ma quasi sempre pronti a dare una mano a chi ne avesse bisogno.
Nella strada noi bimbi organizzavamo i giochi più divertenti e spesso vi facevamo scoppiare le baruffe più accese che richiamavano sugli usci le mamme preoccupate. Quello della strada era un piccolo mondo spensierato che ci coinvolgeva totalmente nella voglia di muoverci in libertà, di alzare la voce e…di sognare.

I miei favolosi anni 30 - Iolanda Raspollini